Premessa
I bisogni della comunità studentesca che Link ha raccolto nel corso degli anni hanno portato all’elaborazione di analisi che sono culminate nel Manifesto Per un’Altra Università. Non bastava portare in critica le politiche che minano il diritto allo studio o evidenziare le carenze degli atenei italiani, era necessario portare delle proposte alternative, dire con chiarezza quali fossero le richieste degli studenti, quale tipo di Università realmente vogliono.
Questa Università deve essere costruita da chi la vive,
chi la rende centro di diffusione della conoscenza, la comunità studentesca che si unisce alla componente lavoratrice, con l’obiettivo di creare un’Università pubblica, gratuita, accessibile che non incentiva il precariato ma valorizza chiunque la componga, dalla matricola al professore ordinario, passando per dottorandi, ricercatori e personale tecnico, amministrativo, bibliotecario ed esternalizzato.A 25 anni dal Processo di Bologna viviamo un’Università sempre più definanziata che progressivamente si avvicina al modello di università-azienda neoliberista, dove vige la competizione e le regole del mercato, la precarietà e l’impossibilità di emanciparsi.
Per questi motivi abbiamo sentito la necessità di pensare, insieme a tutte le componenti dell’accademia, come poter strutturare un’Università diversa, sostenibile, il cui obiettivo sia la liberazione dei saperi scevra da logiche capitalistiche, che permetta l’autodeterminazione di tutte le soggettività che la attraversano e non basandosi su una finta meritocrazia che premia solo chi parte avvantaggiato.
Da questa idea è nato il manifesto
costruito insieme a ADI, FLC e Rete 29 Aprile, un lavoro di convergenza che ha portato al lancio dell’assemblea nazionale a Bologna del 18 novembre 2023.
Da allora, “per un’altra università” sono le parole d’ordine con cui continuiamo il nostro agire politico in ogni ateneo e in ogni città.
Manifesto Per un’Altra Università
Student3, giovani, ricercator3, dottorand3, lavorator3 della conoscenza di ruolo e precari3 unit3
1. PERCHÉ SQUARCIARE IL PRESENTE?
VERSO UN’ALTRA IDEA DI UNIVERSITÀ
La precarietà è ormai un elemento strutturale dell’Università.
L’alto tasso di contratti di ricerca ed insegnamento di breve termine, i dottorati senza borsa e quelli su fondi estemporanei come PON e PNRR, i contratti sottopagati del personale tecnico amministrativo, il moltiplicarsi di esternalizzazioni e appalti per servizi essenziali (portinerie, biblioteche, servizi informatici, ecc.), gli ingenti costi della contribuzione studentesca e della didattica: tutti questi elementi fanno degli Atenei pubblici non più luoghi di emancipazione, ma di sfruttamento e incertezza esistenziale.
Le Università devono essere luoghi del sapere universale in cui pensare, ricercare e costruire vette di conoscenza sempre più alte.
Aperte dalla fine degli anni Sessanta del Novecento ad una dimensione democratica e di massa, superando un profilo elitario e di classe, oggi le istituzioni universitarie vedono arretrare la loro missione sociale, sempre più piegata alle esigenze di una certa cultura d’impresa e di una forma distorta di competizione economica. La condizione attuale non è frutto solo degli ultimi anni, le sue radici affondano lontano, collocandosi in un più ampio quadro di trasformazioni storiche.
In particolare, dagli anni Novanta in poi abbiamo visto l’affermazione progressiva di un’economia globale contraddistinta da una liberalizzazione selvaggia. Funzioni sociali di primaria importanza quali l’istruzione e la sanità sono state sempre più schiacciate dentro forme gestionali di stampo aziendalista.
Un primo passo è stata la riforma Ruberti del 1989 seguita da alcune sue concrete applicazioni negli anni successivi (autonomia finanziaria del 1993 e autonomia didattica del 1997), le quali hanno progressivamente logorato i principi democratici dell’università pubblica e di massa: ad assumere centralità sono stati concetti quali la prioritaria “autonomia universitaria”, la competizione tra Atenei e la “efficienza” degli ecosistemi di istruzione e ricerca superiori. Gli Atenei si sono progressivamente modellati secondo il New Public Management, un paradigma nato negli Stati Uniti negli anni Ottanta, volto alla gestione delle istituzioni pubbliche con gli strumenti dell’impresa. La Riforma Ruberti fu contestata fortemente dal cosiddetto movimento della Pantera (da una pantera che nel mese di dicembre del 1989 aveva trovato breve libertà nelle strade di Roma, ed a cui fu associato il movimento), movimento che ha vissuto di una breve ma intensa durata, attraverso occupazioni degli Atenei, manifestazioni e assemblee nazionali in tutto il Paese.
Un passaggio fondamentale di questo percorso – nel quadro più ampio delle Istituzioni comunitarie – è stato rappresentato dal Processo di Bologna, un tentativo di riforma di istruzione superiore dell’Unione Europea, con l’obiettivo di omogeneizzare le legislazioni universitarie dei paesi del Vecchio continente. L’idea proposta a livello europeo verrà tradotta in Italia in più fasi: a partire dalla Riforma Zecchino-Berlinguer del 1999 con la quale i corsi di studio assumono la forma dello schema 3+2 e diventano strutturali i “crediti formativi universitari” (CFU), e proseguendo con la Riforma Moratti, con la quale si accelera in modo vistoso il processo di autonomia didattica, aprendo a forme di marketing universitario di cui ancor oggi facciamo le spese.
La Riforma Gelmini (2010) ha rappresentato l’ultimo grande passo verso l’aziendalizzazione. Essa infatti ha verticalizzato la forma di governo delle università, concentrando i poteri su Rettori, professori ordinari e Direttore Generale. Si sono introdotte logiche competitive di sistema nella determinazione dei bilanci e nella distribuzione delle risorse (in particolare con il Decreto Legge attuativo 49/2012 sulla Disciplina per la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli Atenei).
Da quel momento in poi, si sono affermati in modo crescente i finanziamenti premiali, la valutazione della performance per merito, l’introduzione del costo standard per studentзin corso: tutti sistemi che dietro la retorica roboante della “meritocrazia” hanno impoverito radicalmente il sistema sul piano delle risorse umane e materiali, minandone la sua stessa esistenza come costituzionalmente prevista. Il Fondo per il Finanziamento Ordinario (FFO) avrà così da allora una ripartizione in base alla qualità dell’offerta formativa e dei risultati dei processi formativi, alla qualità della ricerca scientifica, alla qualità, l’efficacia e l’efficienza delle sedi didattiche.
Solo a parole però viene praticata l’efficienza: il taglio di 1,4 miliardi di euro al FFO nel quinquennio 2009/2013 (art. 66 comma 1зdella Legge Tremonti di bilancio), sotto il governo Berlusconi, rappresenta invece l’inizio di un periodo di sottofinanziamenti e tagli all’istruzione che hanno depotenziato fortemente il ruolo sociale dei luoghi della formazione, alimentando, in modo non virtuoso, il rapporto con i privati.
Indicativo anche il blocco del turn-over al di sotto del 20% per il triennio 2009-2011 (una nuova assunzione del personale universitario ogni cinque posti liberati). Si precarizzava, e si continua tuttora a precarizzare, abolendo la figura del ricercatore a tempo indeterminato e introducendo i contratti a termine: solo al termine di un’estenuante precariato fatto di rapporti di lavoro atipici o particolari come borse, assegni di ricerca intermittenti e RTDa a progetto. Un precariato a cui è stato negato ogni percorso di stabilizzazione, diversamente da tutti gli altri settori della pubblica amministrazione (compresi quelli similari o limitrofi degli Enti di Ricerca e degli AFAM, dove in questi anni si sono stabilizzate migliaia di posizioni, come segnalato dal rapporto ANVUR 2023).
Nel corso degli ultimi dieci anni le università sono diventate sempre più delle istituzioni che lottano tra di loro per accaparrarsi quote di FFO e iscritti. Lasciando il sistema universitario in una forma anarcoide di autoregolazione senza che ci siano mai state politiche di gestione e progettualità nazionale.
Questo quadro si è alimentato di un’ultima, tremenda contraddizione: mentre l’Università pubblica degli Atenei Statali si impoveriva dietro dinamiche di definanziamento e retoriche meritocratiche funzionali al guadagno di pochi, a partire dai primi anni delle controriforme citate hanno iniziato a proliferare le cosiddette “università private e telematiche”. Soggetti orientati al profitto che consentono a pagamento iscrizioni senza un tetto né un limite di tempo, promettono (e mantengono) percorsi “facili” e “agevolati”, e che operano a distanza, al di fuori del nesso inscindibile e necessario tra didattica e ricerca, al di fuori delle regole di funzionamento imposte agli altri Atenei, forzando normative e inquadramenti della docenza e del personale, costruendosi così amplissimi margini di vantaggio e manovra (a partire dalle regole della sostenibilità e della docenza).
Questi soggetti di formazione privata stanno lentamente distruggendo la credibilità dell’intero sistema dell’alta formazione come ogni residuo valore legale del titolo di studio. Va ricordato che queste realtà drenano il 10% dell’intera popolazione universitaria (180.000 studentз iscrittз su un milione e ottocentomila). Un dato unico in Europa, come unica è la presenza in Italia di ben undici telematiche.
Questo scenario è stato accelerato dalla crisi post-COVID19, la quale ha fatto emergere le mancanze strutturali in cui il sistema universitario si vedeva immerso in seguito alle riforme sopra riassunte. Se è comprensibile che a inizio pandemia non si sia stati capaci di rispondere con tempestività a una situazione inedita e che ha richiesto lo spostamento di tutta l’attività didattica online, la logica promossa dal Ministero è stata quella di radicalizzare l’autonomia e l’indipendenza degli Atenei: l’università italiana è stata così, in quella fase drammatica, l’unico ambito sociale italiano che non ha avuto regole di sicurezza uniformi, con prescrizioni molto differenziate persino sui metri di distanziamento minimo e i giorni di quarantena dei libri in prestito nelle biblioteche.
Nella fase successiva come comunità didattica abbiamo visto emergere le carenze dei nostri Atenei, impossibilitati a garantire una didattica sicura e in presenza, a causa della mancanza cronica di spazi, di personale tecnico amministrativo, di personale per l’igienizzazione e la pulizia. Così, in questi anni, ogni ateneo ha praticato regole molte diverse sulla didattica a distanza, gli esami, le modalità dei corsi, il ritorno nelle aule. La mancanza di investimenti reali e strutturali ha così impedito alle università un ritorno ordinato all’attività in presenza, evidenziando duramente il divario apertosi sempre più tra università di livelli diversi. Le diseguaglianze territoriali tra Nord e Sud, appesantite dalla crisi economica conseguente alla pandemia, sono implose determinando un calo delle immatricolazioni nel 2021/2022, recuperato dalla crescita degli Atenei telematici nel 2022/2023.
Un nuovo capitolo per l’Università si è aperto con il PNRR, la cui Missione 4 riguarda il comparto della formazione e della ricerca. L’ingente somma di finanziamenti previsti (un totale di 33,4 miliardi di Euro pari al 14,2% del totale del Piano) si caratterizza come una misura emergenziale ed estemporanea, che come tale non è stata preceduta da una riflessione collettiva sul senso da dare all’insegnamento e alla ricerca o sulle modalità con cui restituire centralità sociale all’istruzione.
All’inverso, questi fondi, in larga parte finalizzati a costruire un ponte “dalla ricerca all’impresa” (come chiarisce sin dal titolo la seconda componente della Missione), hanno imposto un indirizzo di svolta calato dall’alto che mal si è adattato alla realtà vissuta dagli Atenei, hanno dato gambe allo sviluppo di Fondazioni private (che gestiscono in assenza di regole i nuovi centri nazionali e gli ecosistemi di sviluppo), hanno gonfiato nuovamente il precariato (con migliaia di RTDa, assegnisti in proroga e collaboratori di ricerca). Tutto ciò in mancanza di un ampliamento dei servizi per il diritto allo studio, di una riduzione significativa della tassazione (come previsto invece nella prima bozza del piano) e di interventi mirati che potessero far fronte al peggioramento della condizione studentesca dato dalla crisi COVID.
Con un impoverimento generale della popolazione, il PNRR così strutturato non è stato un reale strumento per l’allargamento della platea universitaria, perché non ha portato al ripensamento del Diritto allo studio, mantenendo i vecchi meccanismi basati sul merito e la non universalità degli aiuti previsti.
Sul fronte della ricerca, infine, il PNRR non ha determinato la rivoluzione che ambiva a rappresentare. L’obiettivo di potenziare il comparto della ricerca ha sì portato ad un ampliamento, ma in un contesto di progettualità emergenziale votata alla esclusiva twin transition (del green e del digitale) e senza un respiro successivo alla scadenza del PNRR. Inoltre, le università si sono trovate nell’ulteriore difficoltà di non avere spazi, risorse, personale tecnico-amministrativo e docenti per seguire lзdottorandзin modo adeguato, in particolare nel Mezzogiorno.
A ciò si aggiunge l’assoluta mancanza di prospettive di carriera e stabilizzazione nel comparto accademico e più in generale della ricerca, per cui è oggi ancor più urgente che il Paese investa in modo significativo sull’espansione del sistema universitario nel suo complesso (come avvenuto nello scorso decennio negli altri grandi paesi europeo), sugli organici di ruolo (docenti e tecnici-amministrativi) e anche sulla carriera e sulla crescita professionale dellɜ dottorandɜ, oltre che sul loro numero.
Non aver costruito una discussione collettiva sul futuro dell’Università, che potesse esprimersi sulle mancanze da colmare e sulle aree di azione e modifica più importanti, ha trasformato quella che poteva essere una possibilità di rilancio importante dell’istruzione della ricerca universitaria, in un ennesimo meccanismo di competizione tra Atenei.
È invece necessaria una ricerca scientifica che sia stabile, non precaria, non monopolizzata da gatekeepers che, complici gli scarsi fondi pubblici, controllano destini e carriere. Una ricerca autonoma e democratica.
Questo avremmo chiesto al governo, non un insensato e temporaneo investimento emergenziale, senza alcuna visione di sistema.
Per riprendere uno spazio di narrazione per un modello universitario alternativo, democratico e libero dai processi di mercificazione e impoverimento del sapere, vanno ritagliati da subito nuovi spazi di discussione e di immaginazione. Questo manifesto vuole essere non solo un insieme di rivendicazioni, ma una proposta complessiva di ripensamento del ruolo delle università pubbliche e del loro funzionamento. Consapevoli della portata rivoluzionaria di un sapere libero e accessibile, squarciare il presente per un’altra università per noi non è una semplice battaglia per il miglioramento della condizione di chi la attraversa, ma un progetto di miglioramento della società nel suo complesso.
Con il presente manifesto vogliamo quindi inserirci nelle più ampie battaglie sociali, per tracciare insieme una nuova strada verso un nuovo paradigma politico, economico e sociale per il nostro paese.
2. La didattica nell’università-azienda: merito e valutazione ANVUR
Negli ultimi decenni di progressiva aziendalizzazione dell’università, la didattica si è profondamente trasformata, modellando sempre più i contenuti e le modalità di insegnamento ai bisogni e ai tempi del mercato.
Uno dei principali fattori responsabili dell’appiattimento dell’attività universitaria alla dimensione meramente quantitativa è il sistema di finanziamenti universitari, che prevede criteri premiali stabiliti dall’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR). L’Agenzia, infatti, a cadenza quinquennale redige una classifica degli Atenei italiani per qualità della didattica e della ricerca (VQR). I risultati sono utilizzati per l’allocazione della quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) che, come stabilito dalla legge 98/2013, è aumentata di anno in anno fino a raggiungere e superare il 30%, distribuendo con gli stessi criteri anche quote importanti di risorse (dai Dipartimenti di Eccellenza ai piani straordinari di assunzione).
La qualità della ricerca viene quindi rilevata sulla base di indici bibliografici e numerici che da una parte producono appiattimenti e sperequazioni disciplinari, dall’altra introducono nelle prassi scientifiche evidenti e negative distorsioni; la “qualità” della didattica viene invece restituita tramite criteri (o “indicatori”) meramente quantitativi, quali il numero dei fuoricorso, i voti d’esame e di laurea, i tassi di “occupabilità” dei laureati. Questa griglia forzosa, un vero sistema di “forche Caudine” della valutazione, ha portato gli Atenei a serrare i ritmi di apprendimento, impoverire i saperi appresi e trasmessi, disincentivare i fuoricorso e la conclusione dei loro percorsi di studio, moltiplicare un’ansia di sistema nei confronti della performance che ormai permea ad ogni livello l’insieme della didattica e della vita universitaria.
Questo sistema di valutazione genera un cortocircuito per il quale le università diventano sempre più competitive tra di loro, andando a determinare Atenei di livelli diversi, che così moltiplicano le gerarchie dei titoli di studio e, in qualche modo, delineano un mercato del lavoro sempre più segmentato in nicchie specifiche, se non individuali. Le poche eccellenze (si ricorderà la retorica renziana degli “Hub della ricerca”) che si vorrebbero lanciare nelle classifiche internazionali sono così costruite sul progressivo depauperamento e deperimento delle altre università, progressivamente ridotte a sedi satellite, sacrificate talora al sostegno degli ecosistemi imprenditoriali locali, o a teaching university che dovrebbero focalizzarsi sull’erogazione della didattica di primo o al massimo secondo livello.
Questo paradigma valutativo non prende in considerazione i problemi strutturali che il sistema universitario vive da decenni: la mancanza di finanziamenti, l’impoverimento della condizione studentesca e la conseguente riduzione delle persone che possono frequentare l’università, il divario sempre più ampio tra Nord e Sud e tra metropoli e aree interne.
I meccanismi di finanziamento dovrebbero invece scardinare forme malsane di competizione tra università, garantendo ad ognuna la possibilità di produrre un sapere libero e una conoscenza che permetta alla società tutta di progredire e migliorare: la domanda centrale da porsi non dovrebbe essere “Come formo dei profili altamente specializzati per una professione?” ma “Per chi sto costruendo questo tipo di didattica? Di quali avanzamenti nel campo dei saperi ha bisogno la società in cui viviamo e vivremo?”.Questo processo di schiacciamento del sistema dell’alta formazione sulle supposte esigenze delle imprese e del mercato del lavoro affonda le sue radici nel modello ordinamentale del 3+2, fortemente intrecciato ad una autonomia universitaria troppo spesso fraintesa e ancor peggio applicata: si è consolidato un sistema che differenzia l’offerta formativa sui vari Atenei e la distribuisce su livelli diversi e disomogenei. Da qui derivano la costruzione di corsi di studio e di numerosi collegi d’eccellenza nei principali Atenei, con impostazione residenziale e multidisciplinare ma anche lo sviluppo di corsi di studio molto specializzati e indirizzati a specifiche nicchie professionali, la differenziazione tra Atenei che hanno risorse e personale da spendere nella ricerca e altri che sopravvivono con la didattica ed i corsi professionalizzanti e abilitanti (su cui si lucra indegnamente), la diversificazione tra modalità di frequenza e vita universitaria in presenza e modalità in remoto (queste ultime meramente focalizzate sul conseguimento del titolo).
Riteniamo che questo tipo di formazione non debba essere svolta nei luoghi della formazione: come soggetti dell’accademia spendiamo il nostro tempo e le nostre energie, a discapito dei saperi solidi e di base, per costruire “competenze” che le aziende dovrebbero fornire e finanziare nel momento in cui si è già entrati nel mondo del lavoro. Il ruolo delle università deve essere invece quello di formare cittadini e cittadine in grado di vivere in questa società, comprenderne bisogni e necessità ed essere capaci di trasformarla generando benessere sociale e materiale.
2.1 L’accesso al sapere: il numero chiuso e programmato.
Il progressivo taglio ai finanziamenti ha avuto come conseguenza una drastica riduzione dell’offerta formativa di molti Atenei, che si sono ritrovati a limitare la varietà degli insegnamenti e a porre una serie di sbarramenti all’accesso dei corsi. Il cosiddetto numero chiuso, ovvero le forme di accesso programmato ai corsi di laurea, oggi oramai presente in quasi il 50% dei corsi di laurea, determina di fatto una lesione al diritto allo studio.
Il sapere dovrebbe essere invece libero e accessibile, perché la sua funzione non è soltanto quella di produrre nuovi lavoratorɜ, ma permettere l’emancipazione del singolo attraverso la conoscenza.
Emblema di questo fenomeno è il test nazionale selettivo a medicina, il quale viene giustificato da una parte con il fabbisogno dellɜ medicɜ, dall’altro dall’impossibilità degli Atenei di ospitare un numero troppo ampio di studentɜ. Queste giustificazioni sono fallaci. Di fronte alle mancanze strutturali delle università che non riescono a garantire lo spazio ad ogni studentɜ che lo desidera, la soluzione non può essere quella di porre un limite all’accesso.
L’Italia è uno dei paesi OCSE con le percentuali più basse di laureati (27% tra i 25 e i 35 anni contro una media OCSE del 47%) e il rapporto peggiore tra docenti e studentɜ, ed è effettivamente vero che allo stato attuale gli Atenei collasserebbero se rimuovessero il numero chiuso. Ciò avviene non solo in corsi di area medica: introdurre uno sbarramento all’accesso è oramai una pratica di uso comune in molti settori, da quelli scientifici a quelli umanistici. Corsi a numero programmato o chiuso, spesso con graduatorie basate su test TOLC o su prove di Ateneo, non sono la soluzione all’incapacità degli Atenei di garantire una reale istruzione a tuttɜ coloro volessero accedervi!
La risposta dovrebbe dunque essere quella di garantire un finanziamento adeguato alle università e aumentare realmente la docenza di ruolo, rendendo gli Atenei in grado di rispondere a un alto numero di iscritti come richiesto dalla società italiana, per un’università realmente accessibile a tutti e a tutte, eliminando ogni tipologia di sbarramento all’ingresso!
2.2 Didattica e decisionalità
L’appiattimento della didattica alla produzione di nuova forza lavoro ha ripercussioni profonde anche sui modelli di insegnamento utilizzati durante le lezioni, i laboratori, i seminari e le conferenze che si svolgono in università. Soprattutto dopo l’emergenza COVID-19 e l’esperienza della DAD, l’introduzione di strumenti didattici virtuali ha modificato molto le forme di “erogazione” degli insegnamenti, attraverso l’introduzione di slide, dispense, programmi e piattaforme digitali.
È urgente interrogarsi su quali obiettivi abbiano questi nuovi strumenti nella formazione delle persone che svolgono un percorso di crescita in università: molto spesso lɜ studentɜ non arrivano infatti, in questo “ambiente” ad esprimere al massimo il proprio potenziale in termini di costruzione di sapere in modo orizzontale. Va superato un modello di didattica unicamente trasmissiva in cui il docente è la figura che tramanda il sapere in modo univoco, senza un reale dialogo con la componente studentesca. D’altro canto, va pensato in modo serio il ruolo degli strumenti di insegnamento digitale ed “a distanza” in forma aggiuntiva e integrativa, per le tante categorie che vanno aiutate ma che spesso vengono abbandonate, quali studentɜ in stato di necessità e con forme di disagio e disabilità.
L’università è investita oggi dal problema della povertà educativa, e da nuove forme di analfabetismo, effetti non secondari della disgregazione sociale e relazionale; a tale emergenza si risponde con inadeguati modelli meritocratici, mentre è compito dell’università statale rimuovere le cause delle disuguaglianze, operare per una costruzione ed un consolidamento delle comunità educanti, superare i baratri tra condizioni di censo e realtà territoriali.
Serve un’università che sviluppi spazi fisici, temporali e curriculari per un apprendimento sociale e collettivo. È urgente la costruzione di un sistema che operi in modo sintonico con la scuola e le altre realtà educative e investa massicciamente su orientamento in ingresso, in itinere ed in uscita dellɜ studentɜ e forme stabili di tutorato qualificato.
Inoltre, per un modello didattico partecipativo occorre immaginare forme di insegnamento che coinvolgano lɜ studentɜ e che non si limitino a un’asettica trasmissione di nozioni, tenendo pur sempre conto dei dovuti distinguo tra le materie di studio, che in alcuni casi non si prestano a un modello didattico completamente orizzontale (ad es. saperi molto tecnici e conoscenze di base e/o specifiche necessarie).
L’idea di fondo che deve accompagnare la costruzione di una didattica alternativa è quella che la conoscenza è un processo collettivo che cresce tanto più è alto il coinvolgimento attivo di diverse competenze, idee e prospettive.
Sarà necessario dunque investire in saperi che siano realmente transfemministi, antirazzisti, antifascisti e decoloniali, perché la trasmissione della conoscenza possa essere davvero motore di un nuovo modello non solo di un’altra università, ma di un’altra società!
2.3 Spazi e tempi
La condivisione e l’assimilazione della conoscenza viene agevolata grazie al contesto in cui viene inserita. Ci sono numerosi studi sul rapporto tra spazi fisici e apprendimento: il modo in cui sono strutturate le aule, la presenza di luoghi di decompressione, di ristoro e di spazi all’aperto sono fattori fondamentali che incidono sulle modalità di apprendimento e permettono di facilitare la comprensione e l’elaborazione degli argomenti affrontati durante le lezioni.
L’esistenza di spazi adeguati non solo permette di sperimentare la “didattica circolare”, trasmissivo-partecipativa, ma stimola anche il confronto e la circolazione dei pensieri, delle riflessioni e delle conoscenze tra le persone e le generazioni, permettendo di costruire una conoscenza collettiva che stimoli la ricerca e il confronto. Dopo tre anni di isolamento causato dal covid è più che mai necessario ricreare e ampliare gli spazi all’aperto e di aggregazione, per coltivare le proprie passioni extracurriculari da lasciare a disposizione della comunità tutta e non solo di quella accademica.
Oltre agli spazi è importante interrogarsi sui tempi a disposizione della comunità accademica per svolgere le proprie attività: i ritmi definiti dal sistema universitario, soprattutto grazie ad applicazioni spesso aberranti e non funzionali del modello 3+2, sono ritmi da catena di montaggio scanditi dagli orari delle lezioni, dei laboratori, dai tempi necessari per gli spostamenti (spesso oggetto di disservizi nelle nostre realtà urbane) e dai tempi di studio e di preparazione per gli esami.
Non c’è una prospettiva alternativa in grado di creare armonia tra questi intervalli temporali, in cui si inseriscano momenti di socialità, di lettura, di ascolto.
2.4 La valutazione
Oggi la valutazione è vissuta dallɜ studentɜ come un momento di ansia: le ragioni sono molteplici, tra queste un’esperienza scolastica e familiare che sempre meno abitua al confronto culturale e ad una seria autovalutazione, ma anche la consapevolezza angosciante che dalla “media” dei voti universitari dipenderà il voto di laurea e quindi la spendibilità del percorso di studio in un mercato del lavoro individualizzato e selvaggio. Il voto è vissuto quindi come un momento di giudizio in cui si certifica in modo asettico “quanto vali” come studentз. Le università non devono essere laureifici ma luoghi di confronto umano, culturale e scientifico tra generazioni.
In questo quadro, va chiarita in modo netto la distinzione culturale tra giudizio e valutazione, non sempre presente a troppɜ docenti. È necessario che la valutazione diventi realmente uno strumento utile allə studentə, che lə permetta di essere consapevole di qual è il suo livello di conoscenza e di quali strumenti ha bisogno nel suo percorso di crescita. Per questo motivo il voto e le altre forme di valutazione possono essere un parametro indicativo del sapere conseguito, ma non devono mai essere un meccanismo punitivo che abbia il ruolo di determinare l’ottenimento di borse di studio, che non possono essere solamente “borse di merito”. È necessario quindi slegare la valutazione, il superamento degli esami e il calcolo dei CFU ottenuti dal nesso troppo stretto con le forme di premialità e punizione. In questo senso la sovratassazione dellɜ studentɜ fuoricorso, vittima di una vera ghettizzazione colpevolizzante, rimane un impedimento forte al vivere l’università, la didattica e lo strumento della valutazione come edificanti per l’individuo, che si ritrova a dover stare in tempi prestabiliti al di là della sua condizione sociale e personale, pena il pagamento di ingenti somme di contribuzione studentesca.
In un nuovo modello di Università sarà fondamentale promuovere all’interno del processo di valutazione anche la didattica partecipata, sotto forma di produzione di ricerche personali, lavoro di gruppo, stesura di paper. Bisogna aprire una riflessione sulle forme didattiche che possano permettere allɜ studentɜ di essere parte attiva del loro percorso di apprendimento, sotto la guida di unə docente che passo dopo passo fornisca strumenti valutativi che indichino la qualità delle conoscenze apprese. Il riferimento all’esame come unico banco di prova utile per misurare le proprie capacità, inoltre, rende estremamente complicato vedere l’università non come un esamificio, in cui si punta a raggiungere il più velocemente possibile la laurea. In questa prospettiva, la valutazione meramente numerica in trentesimi, non è adeguata all’assolvimento del compito formativo della formazione, se non accompagnata da forme di reale motivazione e articolazione.
Dentro un nuovo patto educativo e generazionale e un nuovo investimento pubblico e sociale sulla formazione, va garantita e promossa quindi una dialettica tra docente e studentə nel momento della verifica delle conoscenze acquisite.
2.5 Sapere e lavoro: i tirocini
Oggi la valutazione è vissuta dallɜ studentɜ come un momento di ansia: le ragioni sono molteplici, tra queste un’esperienza scolastica e familiare che sempre meno abitua al confronto culturale e aI momenti di tirocinio sono esemplificativi delle dinamiche che intercorrono tra la filiera formativa e quella lavorativa. Vediamo infatti come i percorsi di tirocinio troppo spesso non sono momenti formativi, ma servono alle aziende per garantire percorsi di inserimento al lavoro o manodopera gratuita. Troppo spesso, infatti, questi percorsi non sono sottoposti ad un’effettiva supervisione didattica, non sono integrati con i propri percorsi formativi e non sono coerenti con ciò che si studia. Il loro contenuto risulta essere funzionale maggiormente all’ente ospitante che al percorso dellə studentə. Se l’università viene vista come subordinata al mercato del lavoro, questo è evidente a partire proprio dai tirocini. Crediamo che questa prospettiva debba essere ribaltata.
È necessario ripensare la separazione netta tra sapere teorico e sapere pratico, non riducendo la parte empirica soltanto al momento del tirocinio, ma garantendo un permanente collegamento dei saperi teorici con la loro dimensione concreta, in un circolo virtuoso di “teoria e prassi” che superi la dicotomia, angusta e fuorviante, tra “conoscenze” e “competenze”.
Il tirocinio che immaginiamo non dovrebbe preparare le persone a competenze settorializzate da applicare ad una singola mansione, ma dovrebbe costruire le basi per delle conoscenze generali e per dei metodi applicabili a più ambiti, per permettere a tutti di riuscire ad adeguarsi a nuovi ambienti. Perché siano un punto di contatto realmente funzionale tra formazione e lavoro, i tirocini devono avere degli obiettivi formativi chiari, specifici e costruiti su periodi di tempo di breve durata, affiancati da osservatori e sistemi di tutoraggio che permettano di mappare e implementare i percorsi avviati.
3. Condizione studentesca
La condizione studentesca negli Atenei oggi è evidentemente molto mutata, pagando a pieno la crisi culturale ed economica dei nostri tempi, rendendo nei fatti la componente studentesca più incline a piegare il percorso universitario a scelte lavorative future, e pertanto più isolata e frammentata (quando la frequenza universitaria è economicamente possibile).
Nonostante ciò, la panoramica delle forze universitarie ci fa ritenere ancora oggi che solo gli studentз, come altre volte in passato, potrebbero invertire la tendenza in atto e recuperare, in avanti, il significato originario di «comunità universitaria».
Al netto di ciò, è evidente che il panorama universitario in cui oggi lo studentə si muove è frutto dei processi di individualizzazione e aziendalizzazione che si discutevano nel primo paragrafo: da ciò deriva l’assenza totale di un welfare studentesco che nei fatti consenta la piena emancipazione dell’individuo durante il percorso di formazione terziaria. Esattamente come il lavoratore, nel tardo capitalismo lo studentə deve “guadagnare” la sua condizione presente: nulla gli può correre in aiuto se non meri meccanismi di premio atti ad esacerbare la sua stessa condizione di precarietà presente e futura.
Facendo un passo indietro, è evidente come la condizione studentesca oggi non sia per nulla sostenuta da condizioni reali di welfare, per quanto il diritto allo studio sia sancito dalla Costituzione.
Lo leggiamo in primis dall’accessibilità degli studi terziari: in Italia, tra le persone di 25-64 anni, la laurea magistrale è il titolo di studio terziario massimo raggiunto più diffuso, con una percentuale del 14% della popolazione, seguita dalla laurea triennale con il 5% e dalle qualifiche terziarie a ciclo breve (Istituti Tecnici Superiori) con meno dell’1%. Questo dato tuttavia si discosta dalla media dell’OCSE, in cui le lauree triennali sono le più diffuse (19%), seguite dalle lauree magistrali (14%) e dalle qualifiche terziarie a ciclo breve (7%). Come in tutti i Paesi dell’OCSE e in altri Paesi partecipanti, solo una piccola parte della popolazione possiede un titolo di dottorato: in Italia la quota si attesta all’1%.
Utile da tenere in considerazione nell’analisi politica è anche il tasso di passaggio tra scuola superiore e università: Calabria, Puglia, Sicilia e Campania sono le uniche dove meno del 50% dei neo-diplomati si è iscritto all’università lo stesso anno in cui ha conseguito il diploma; ai primi posti invece Abruzzo, con quasi il 60% di iscrittз. Osservando poi i dati provinciali è interessante notare gli ampi divari all’interno delle stesse regioni. È il caso ad esempio della Lombardia, dove la provincia di Lecco è al quinto posto tra quelle italiane a quota 59,3% e la provincia di Sondrio è ultima con solo il 37,1% di iscritti. Situazioni simili anche in Piemonte e Liguria, con alcune province che superano la metà dei neo-diplomati iscritti e altre invece fanalino di coda.
Questi non sono solo numeri: sono studentз e studentз che il sistema educativo italiano ha per varie ragioni espulso, ai quali non ha consentito uno strumento di emancipazione dalla loro condizione di partenza, economica e sociale.
Se difatti l’accesso ai più alti gradi dell’istruzione è garantito per Costituzione, ci si chiede come questo possa essere subordinato al superamento di test d’accesso, evidentemente escludenti non solo perchè “a pagamento” (si rimanda al paragrafo sul Numero Chiuso).
Un fattore fondamentale che determina la possibilità di avere accesso all’istruzione universitaria è evidentemente l’elevata contribuzione studentesca: in Italia i livelli medi di tasse universitarie sono abbinati a livelli medi di sostegno finanziario allз studentз. Le Università pubbliche statali applicano tasse universitarie medie pari a €1.875,23 per la laurea triennale e a €2.098,18 a livello di laurea magistrale.
In termini di tassazione universitaria, l’Italia si colloca nella classifica mondiale alle prime posizioni, non aggiudicandosi un podio ma guardando dall’alto della sua posizione paesi europei dove l’università è gratuita come Finlandia, Svezia e Danimarca oppure Germania e Repubblica Ceca (che chiedono solo piccoli contributi, anche simbolici equivalenti a 7 euro); tutti paesi per i quali la garanzia del diritto allo studio è data da un uso combinato di borse di studio d’importo significativo e/o la completa gratuità per l’accesso ai percorsi di formazione.
Negli ultimi anni, a causa della crisi pandemica, ci sono stati dei leggeri avanzamenti riguardo la garanzia di un maggiore diritto allo studio, come l’aumento della No Tax Area (indubbiamente un primo passo, considerato che nel 2020 il limite era di 20mila euro e nel 2019 di circa 13mila): ma non basta, perché le difficoltà economiche si riversano oggi più che mai sulle spalle di una comunità studentesca che dovrebbe essere invece in grado di emanciparsi dalla propria condizione familiare.
Il diritto allo studio è uno dei diritti della persona sancito in Costituzione. Vedersi tutelato e garantito questo diritto, soprattutto rispetto all’accesso all’istruzione superiore, è per legge un fatto subordinato a delle valutazioni basate su criteri di merito, e che non può essere connesso al solo fattore patrimoniale.
Così, ogni anno una grossa fetta di studentзlavorator3, che non rispondono a dei criteri di merito interpretati in senso punitivo, si trovano costretti a pagare ingenti somme di denaro per poter continuare il percorso universitario. Come pensiamo di poter considerare diritto qualcosa a cui, per accedere, devi pagare? Come pensiamo di poter considerare diritto, quindi accessibile a tuttз nello stesso modo, universale per sua natura, ciò che invece è fortemente legato al welfare familistico? Non si può continuare ad escludere chi non ce la fa, non si può più gravare sulle spalle delle studentз, non possiamo continuare a determinare con parametri punitivi di accumulazione chi può studiare e chi no!
Ogni forma di tassazione e sovratassazione nega il diritto allo studio, così come lo fa ogni forma di esclusione: in questo il fuoricorso assume un ruolo centrale.
All’Università degli studi di Roma “La Sapienza” chi è fuoricorso per determinate classi di laurea arriva a pagare 4386€ l’anno; questa è una categoria classista e meritocratica che non tiene conto del percorso formativo della singola persona e che non consente la piena emancipazione delle studentз.
Anche qui è evidente che il problema non riguarda singolarmente ogni Ateneo, ma è frutto di un sistema di finanziamenti totalmente da superare: il F.F.O. (fondo di finanziamento ordinario) è quello che consente, tra le altre cose, di coprire il costo standard studente, e presenta non poche problematiche. Esso è suddiviso in quota base e quota premiale del Fondo: quest’ultima è stata aumentata fino ad un massimo del 30%. Di tale quota almeno ⅗ sono ripartiti tra le università sulla base dei risultati conseguiti nella Valutazione della qualità della ricerca (VQR) e un quinto sulla base della valutazione delle politiche di reclutamento, effettuate a cadenza quinquennale dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR). Così gli Atenei riversano sullзstudentзla mancanza di fondi ministeriali, aumentando la tassazione per merito e per i fuoricorso, limitando l’accesso agli spazi universitari per evitare contrattualizzazioni di personale aggiuntivo.
Occorre necessariamente rivedere il sistema di finanziamento delle attività didattiche e curriculari degli Atenei, ripartendo i fondi in base a criteri di fabbisogno e non di premialità, per non farli successivamente ricadere sulle spalle dellзstudent3; la quota premiale andrebbe dunque completamente abolita.
È urgente garantire la gratuità completa del percorso universitario, inserendolo a spese della fiscalità generale ed accompagnandolo ad una riforma di quest’ultima: ciò si accompagna ad una abolizione dei criteri di merito nella determinazione della possibilità di proseguimento del percorso universitario, inserendo all’interno del costo standard per studentə anche le attuali “fuoricorso”.
Il merito, di cui tanti oggi si parla, è la giustificazione delle disuguaglianze che i nostri Atenei vivono e, con loro, lз studentз. L’altra faccia della medaglia della parola “premio” su requisiti di merito e di valutazione, è “punizione”.
Questa ottica punitiva, insieme al definanziamento e alla contribuzione studentesca, è quella che ha reso il diritto allo studio di fatto inesistente: il rispetto dei criteri di merito nell’assegnazione delle borse di studio esclude una grossa fetta delle studentз che, nei fatti, abbandonano gli studi.
Andando più nello specifico, il sistema di diritto allo studio si basa su sussidi diversificati per fascia di reddito e provenienza, erogati su rispetto di un combinato di requisiti di reddito e merito.
Le borse di studio, così come gli altri benefici (alloggio, mensa, convenzioni) sono suddivise su base regionale: difatti al loro finanziamento concorrono fondi nazionali noti come F.I.S., il gettito derivante dalla tassa regionale e gli importi propri della Regione che sono pari almeno al 40% dell’assegnazione del Fondo.
Nel corso degli ultimi anni, complici l’aggravio delle condizioni di vita generali nel nostro sistema Paese, il carovita è andato di pari passo con il caro studio, rendendo nei fatti insufficienti ed inefficaci gli interventi per il diritto allo studio.
Secondo gli ultimi dati pubblicati dal MUR, nonostante la pubblicazione e il reperimento di tali dati sia manchevole e ostica, più di 5000 studentз con i requisiti per la borsa di studio non ne ha potuto beneficiare per mancanza di fondi: è questa la figura ossimorica dell’idoneo non beneficiario. La stessa erogazione non è esente da enormi difformità territoriali: per esempio la regione Sicilia ha pagato le borse di studio solamente a marzo; in Calabria i sussidi sono stati erogati ancora più tardi: il 12 aprile; in Veneto nel bilancio regionale 2023-2025 mancano 13,8 milioni di euro (su quasi 80) per coprire tutti coloro che hanno i requisiti per ottenere il contributo. Un buco che lascia senza certezze 3.646 studentз su 17.606: oltre il 20% degli aventi diritto entrati in graduatoria. Vanno dal 17% dell’università di Padova (quasi duemila non beneficiari e un buco di circa 7 milioni e mezzo, secondo le stime di Ostanel) al 36,92% di Esu Venezia, azienda regionale per il diritto allo studio; per il 2023-24 si prevedono più di 3mila idonei non beneficiari.
L’andamento del FIS è andato decrescendo nel corso degli anni, se lo si guarda in rapporto alle condizioni di vita e al numero di studentз: ne sono appunto un dato il numero innalzato di idonei non beneficiari, coperti con interventi postumi alla pubblicazione delle graduatorie e non bastevoli.
La restituzione dell’importo della borsa nel momento in cui non si rispettano criteri di merito è di per sé folle: come può una studentə restituire l’importo che le ha consentito di frequentare?
Questa fetta di esclusi si aggiunge alla crescente quota di idonei non beneficiari: questa figura andrebbe evidentemente eliminata, perché come può una persona avere diritto a qualcosa che, di fatto, non le spetterà?
Il valore stesso della borsa di studio è un tema complesso da discutere: dopo gli adeguamenti all’inflazione, esso, per studentзfuorisede è pari a € 6.157,74 annui, quando a Milano la spesa media è di 1200 euro al mese, di cui 600 mediamente solo per l’affitto.
L’inadeguatezza dell’importo della borsa di studio a coprire i costi di vita richiesti porta lзstudentзa dover lavorare per potersi permettere di studiare: posta l’evidente natura ossimorica di questa condizione (da quando ci si deve “permettere” un diritto?)
Risulta evidente come questo modello di diritto allo studio, frammentato, regionalizzato e non finanziato, non è adatto per garantire l’accesso e il proseguimento degli studi universitari e non consente emancipazione: occorre necessariamente tenere conto del fabbisogno delle singole regioni e il costo della vita nelle stesse, per garantire un importo utile a coprire i costi differenti; per fare ciò è necessario rendere centralizzata la suddivisione delle risorse ed eliminare i criteri di merito nell’assegnazione delle borse di studio, tenendo conto solo del parametro economico, che andrebbe comunque migliorato. Questo sarebbe evidentemente un avanzamento verso il necessario reddito di formazione: un reddito per tuttзcoloro che studiano, per consentire emancipazione dal welfare familistico, per garantire l’abolizione degli ostacoli economici che si frappongono tra l’individuo e la sua reale autodeterminazione.
Un altro fattore determinante è la questione abitativa: il mercato libero ha consentito ai proprietari di innalzare follemente i prezzi delle abitazioni, costringendo intere famiglie e singole persone a rinunciare al diritto alla casa.
La vera domanda è perché mai lз studentз dovrebbero preoccuparsi di ciò che accade sul libero mercato? Il loro diritto all’abitare non dovrebbe forse essere parte del diritto allo studio e dunque garantito per Costituzione?
La risposta è che certamente dovrebbe, ma non lo è: ad oggi i posti letto in studentati pubblici sono circa 40.000 a fronte di 1.800.000 studentз universitariз, di cui più di 800.000 fuorisede; in ciò sono insufficienti le risorse destinate dal Ministero ed utilizzate iniquamente ed indebitamente quelle previste dal PNRR: il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza poneva l’obiettivo di triplicare i posti per gli studentз fuori sede, portandoli da 40.000 a oltre 100.000 entro il 2026. Se tuttavia a questo obiettivo si arriva destinando tali fondi ai privati e non al pubblico, l’emergenza abitativa diventerà ancora più insostenibile inoltre, i bandi degli enti regionali per il diritto allo studio universitario sono spesso tardivi (e l’alloggio viene messo a disposizione quando l’attività universitaria è già iniziata con evidente penalizzazione specie dellз studentз del primo anno) e l’alloggio eventualmente assegnato è talvolta anche molto distante dall’ateneo. Anche il sostegno economico fornito per la locazione di alloggi privati è in molti casi inadeguato alla luce delle condizioni di mercato specie in talune realtà, e anche tale prestazione strumentale al diritto allo studio presenta significative divergenze a livello territoriale.
La necessità di un piano di edilizia universitaria pubblica, che garantisca a tutte il diritto all’abitare, passa dal rafforzare le risorse nell’edilizia universitaria da impiegare per l’acquisizione di nuovi immobili o per la riqualificazione di strutture pubbliche non più in uso; è irrinunciabile la definizione dei LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) da applicarsi allo studio universitario, affinché l’eventuale difformità nell’erogazione di servizi connessi al diritto allo studio possa essere consentita, anche in questo ambito, solo per prestazioni ulteriori rispetto a quelle ritenute minime.
Allo stesso modo, è necessario intervenire sulla regolamentazione del libero mercato: l’attuazione dell’articolo 5 comma 3 della legge n. 431/1998 prevede la stipula di accordi di canone concordato in tutti i comuni sede di Atenei. Il modello contrattualistico per locazioni transitorie esiste già, esigiamo quindi che i comuni convochino i tavoli di contrattazione con i sindacati inquilini e le organizzazioni studentesche. Il canone concordato permette ai proprietari di immobili di fissare un prezzo stabile, sulla base di accordi territoriali stretti con il proprio comune di riferimento che tengano in conto delle dimensioni e della posizione dell’immobile. Il canone concordato, infatti, permette ai proprietari che scelgono, ad esempio, dei contratti con regime di cedolare secca di avere una tassazione fissa al 15% (a differenza del 21% del canone libero). I contratti con canone concordato possono essere della durata 3+2 di rinnovo, contratti per studentз universitariз da 6 a 36 mesi o anche contratti transitori da 1 a 18 mesi. Tuttavia risulta altresì necessario un superamento totale del sistema di libero mercato degli alloggi. La riforma della legge n. 431/98 risulta determinante per un superamento della disomogeneità territoriale di trattamento, per il superamento definitivo delle storture derivanti dal libero mercato e la reintroduzione dell’equo canone.
Sono poi oltre 50.000 le case presenti per affitti brevi nella sola piattaforma AirBnB tra Bologna, Roma e Milano. È evidente che questa è una situazione che non può più essere ignorata e che è la principale causa dell’aumento degli affitti nelle grandi città. Il problema deriva anche dal fatto che non è più il semplice privato ad offrire una singola stanza o un appartamento sulle piattaforme di booking, ma agenzie immobiliari che lottizzano interi stabili e detengono la maggioranza degli affitti di una determinata città, creando una forte concorrenza e monopolizzando il mercato. Oltre ad un aumento dei prezzi per l’affitto, cala in tal modo drasticamente il numero di case disponibili, azzerando così l’offerta abitativa per lзstudentз. Serve quindi una presa di coscienza a livello nazionale, attuando soluzioni legislative che possano porre un freno a queste dinamiche, permettendo ai comuni di porre un tetto al prezzo degli affitti, ed imporre alle piattaforme di booking una vincolatività soggetta all’urbanistica locale.
La condizione di precarietà è facilmente osservabile anche in uscita dal percorso universitario: ne sono un esempio i tirocini formativi, che effettivamente hanno perso il loro valore formativo diventando strumenti utili allo sfruttamento di precariз non contrattualizzatз (lз studentз)!
I dati dell’inserimento nel mondo del lavoro urlano forte il binomio università-privilegio: malgrado i decantati vantaggi sul mercato del lavoro correlati al conseguimento di una laurea, moltз studentз universitariз non completano in tempo il percorso di studi o non si laureano affatto. Soltanto il 21% di loro consegue il titolo di laurea triennale entro i tempi previsti, mentre in tutta l’area dell’OCSE il tasso di completamento del ciclo di studi entro la durata prevista arriva al 69%: in Italia, il 53% dellзstudentзdi laurea triennale consegue il titolo entro tre anni dalla fine prevista del ciclo di studi, rispetto al 68% in media in tutta l’area dell’OCSE.
Questo chiaramente senza tener conto di corsi di laurea non professionalizzanti, con esami di stato a pagamento e a carico interamente dellз studentз: ne sono un esempio lampante le recenti novità circa la Scuola Forense o il percorso di abilitazione all’insegnamento; corsi, questi ultimi, che arrivano a costare fino a €2500, escluso il pagamento dell’esame finale, venendosi a configurare nei fatti come dei master di secondo livello per nulla accessibili in termini economici.
L’analisi sull’attuale condizione studentesca, che per noi è punto di partenza per la costruzione di un modello alternativo, non può tenere conto soltanto delle condizioni materiali: il sistema universitario grava sull3 student3 dal punto di vista psicologico tanto quanto quello economico! I dati sulla sostenibilità del percorso universitario parlano chiaro: secondo uno studio del Cnop del 2021, vi è un aumento significativo dei pazienti in terapia nelle fasce più giovani della popolazione; un +31% fra i minori di 18 anni, che arriva a un +36% tra i 18-24 anni, per poi scendere al +25% tra i 25-34enni. La questione non si riduce tuttavia ad un mero esercizio di adattamento alla competizione a cui il sistema universitario sottopone: c’è , per esempio, da tener conto del sottofinanziamento che il comparto della formazione vive da decenni nel nostro paese, non garantendo percorsi scolastici e universitari economicamente accessibili, non fornendo le infrastrutture necessarie, l’accessibilità dei libri di testo, la copertura totale delle borse di studio universitarie. La dispersione scolastica, il fenomeno degli studenti lavoratori, l’abbandono degli studi universitari, non possono essere ridotti a una questione individuale, è necessario mostrare le radici politiche, sociali ed economiche. I dati sull’abbandono scolastico ci raccontano poi una storia di profonde disuguaglianze, che la scuola amplifica, invece che colmare: tra i figli di genitori con al massimo la licenza media, uno studente su quattro abbandona gli studi, mentre questo numero scende all’1,9% tra i figli di laureati.
Nelle università diversi corsi e diversi dipartimenti hanno metodi di valutazione completamente differenti, basta pensare ai “punti velocità” dati a chi si laurea nelle prime sessioni utili. Una migliore condizione economica dà accesso a strumenti aggiuntivi, come corsi esterni o ripetizioni private. Lз studenti svantaggiatз, così come quell3 costrettз a lavorare, si trovano ostacolatз nel loro percorso accademico per mancanza di tempo e di energie, vedendosi aumentare la possibilità di andare fuori corso (categoria, quella del fuoricorso, che dimostra bene quanto alla fine chi è dato di salvarsi nella sfortuna al più sono lз economicamente e culturalmente avvantaggiatз e che il discrimine ultimo è alla fine quello di privilegio socio-culturale). Al netto di ciò , parlare di merito e di responsabilità individuale vuol dire disconoscere tutti questi fattori. Le conseguenze di questo atteggiamento sono palesi anche nell’impatto sulla condizione psicologica dellз giovani oggi. Il 40,2% dei giovani dichiara di aver avvertito disagi psicologici, più di uno su tre afferma di avere sintomi depressivi L’organizzazione mondiale della sanità dichiara che a livello globale il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani, i dati diffusi stimano che per ogni suicidio ce ne sono almeno altri 20 tentati e tra le innumerevoli cause vi sono bullismo, cyberbullismo e fallimento negli studi. Sempre più spesso assistiamo alle storie di giovani che si tolgono la vita in quanto ritengono di essere “un fallimento”, perché non rispondo alle richieste della società. L’idea condivisa – imposta dall’alto – è che benessere e salute (ad esempio) debbano meritarsi, fino a realizzare nei fatti che la vita stessa di chi giunge a considerarsi non all’altezza degli standard richiesti possa mettersi in discussione nella mente spinta al suicidio. La logica meritocratica favorisce negli individui una mentalità fortemente individualistica che, disabituando al piacere, alla vita di gruppo, ai valori quali l’organizzazione sociale e politica, educa gli individui ad essere sempre produttivi, competitivi, vedendo nel compagno di banco non una persona con cui costruire esperienza, ma un competitor. Non solo, le università non sono totalmente dei luoghi sicuri: i tassi di violenza di genere nelle stesse aumentano di anno in anno: non esistono presidi tutelanti nè per l3 student3 nè per l3 lavorator3, consultori in Ateneo nè sportelli di ascolto in misura diffusa e uguale su tutto il territorio italiano. Le persone genderfluid, queer e transessuali sono poi costrette spesso ad abusi come il misgendering, considerando come la Carriera Alias non sia ancora un diritto praticato a pieno in ogni Ateneo.
Liberare le università dall’ideologia meritocratica e dalle sue espressioni non può passare però soltanto dalle modalità didattiche: rivendichiamo lo psicologo di base, presidi in ogni Ateneo, consultorie autogestite, carriere alias e sportelli antiviolenza: E’ necessario lottare contro tutti gli strumenti di esclusione per merito che permeano i nostri Atenei: borse di studio per merito, ingresso agli istituti superiori previa valutazione della media, test d’ingresso, prestiti d’onore, sono dispositivi che costellano i nostri percorsi di studio, rendendo possibile il mantenimento e il rafforzamento delle disparità sociali. L’abolizione di questi meccanismi può passare soltanto tramite una riforma del comparto della formazione, che permetta la transizione dal modello attuale alla possibilità di costruire scuole e università di massa. In questa idea di formazione non ci sarebbe posto per il merito, perché verrebbero meno competitività, rivalità e sistemi premiali.
Al posto del merito la funzione centrale della formazione deve assumere la cura.
Per un’università della cura, non un modello in cui siamo tuttз uguali, ma un sistema di reciprocità, che faccia emergere le differenti soggettività nel tentativo continuo di valorizzarle.
Quello che ne deriva unendo i puntini è il disegno di un percorso universitario faticoso ed oberante: lo studium come desiderio soggettivo non è previsto dalla nuova università, così come non lo sono tutte quelle attività studentesche dedicate alla «digestione» di ciò che si è studiato, alla riflessione e interiorizzazione dei saperi e delle conoscenze acquisite. Se osserviamo la vita quotidiana di uno studentə universitario, le attività connesse a scelte autonome di studio come l’approfondimento di una tematica, la discussione tra studentз, la lettura di libri o documenti non richiesti direttamente per gli esami, eccetera, sono minime e spesso assenti. Immersi nei meccanismi e ritmi accademici, nei quali il tempo d’apprendimento è considerato alla stregua del tempo di lavoro industriale, lз studentз conducono numerose e minuziose attività con l’obiettivo supremo di acquisire crediti, poco importa se dietro quei crediti si nasconda un percorso rispetto ad un altro, un docente piuttosto che un altro, un paradigma, una teoria, dei metodi e approcci piuttosto che altri. Il rischio è che questa pratica, per la quale l’interesse verso un determinato studio dipende dal suo valore in «crediti formativi», ripetuta nel tempo, favorisca tra lзstudentзuna mentalità per la quale ogni attività vitale può essere soggetta al criterio dell’utilità economica; e questo principio, c’è da aggiungere, sembra non incontrare limiti alla sua diffusione: la deriva è un malessere generalizzato che non si può pensare di risolvere con misure palliative seppur fondamentali. Il tema della salute mentale dellзstudentзuniversitariз è ad oggi centrale nel dibattito: è necessario, così come per il resto della popolazione, garantire lo psicologo di base e la presenza di presidi negli Atenei, non solo di counseling ma anche di sportelli antiviolenza.
Non possiamo tuttavia continuare ad avere questa lente asettica nella lettura della realtà: la sensazione di disagio non è “colpa” di chi studia, ma di un sistema così competitivo e meritocratico che getta nell’individualismo e nella produzione ogni aspetto sociale, umano e relazionale.
Non occorre rivedere solo il sistema di diritto allo studio, la didattica e/o la contribuzione studentesca: occorre un’altra università, che sappia coniugare la passione all’emancipazione, il diritto di coltivare un sapere critico e decostruente con la volontà di costruire una società diversa.
I motivi per rifiutare il ruolo di capitale umano cucito addosso allз studentз dall’università azienda sono molti e radicati, e riemergono ogni qual volta si esce dall’isolamento e ci si mette in «movimento», ogni volta cioè che lзstudentзcominciano a percepirsi, agire e pensare come forza collettiva autonoma.
Solo la convergenza tra studentз e precariз dell’Accademia potrà riparare al danno reale che la politica e gli interessi privati hanno arrecato all’università.
4. Ricerca
La condizione studentesca negli Atenei oggi è evidentemente molto mutata, pagando a pieChi per passione ha scelto di fare ricerca ha bisogno di tempo per pensare, per immaginare, per creare, con libertà e fantasia, in ogni disciplina. “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, cita la nostra Costituzione. Si presti tuttavia attenzione a non caratterizzare negativamente il termine “passione” e neppure in misura oppositiva al termine “lavoro”, per giustificare il presente: l’una definisce lo slancio, l’altro la dignità dello status di chi ha quello slancio.
Entrambi gli elementi vengono mortificati in modo sistematico e, anzi, interpretati nei loro sensi più deleteri: il percorso del ricercatorɜ, sin dal dottorato, deve essere una Passio Christi nel quale sperimentare la quotidiana fatica e la durezza del vivere, poiché naturalmente privilegiatɜ da un lavoro che si “ama” e per il quale, dunque, ci si sacrifica indefessamente, anche attraverso la gratuità del proprio quotidiano lavoro di ricerca.
A più di dieci anni dalla riforma Gelmini, viviamo un progressivo e preoccupante svuotamento della ricerca libera, pubblica e al servizio del bene comune. Coerentemente con l’impianto ideologico alla base della riforma (e pre), si è andata a contrarre la capacità da parte delle università di investire in percorsi di ricerca liberi, delegando sempre più la definizione delle strategie di ricerca ai soggetti aventi il capitale a disposizione per farlo: lo spazio per indagare nelle Università è sempre più lo spazio dei saperi “utili”. E non sempre se non di rado i saperi “utili” sono quelli realmente necessari e urgenti alle Università ed ai loro territori. La ricerca in Italia si sta sempre più schiacciando verso la dimensione della competizione sul numero di pubblicazioni [publish or perish], in un’ottica di servizio verso esigenze di breve momento del ciclo economico, o direttamente di supporto alla produzione, magari in conto terzi, di brevetti e pubblicazioni che spesso non consentono né il reale avanzamento in termini di sapere collettivo, né la libera espressione dellɜ dottorɜ di ricerca e lɜ ricercatorɜ in formazione. La ricerca ha abbracciato, in tutti gli ambiti, in modo speculare alle distorsioni della didattica, un modello “quantitativo” (più “produci” e più “vali”) piuttosto che qualitativo e basato sull’impatto reale e socialmente rilevante del lavoro di ricerca. Va detto chiaramente: la sovrapproduzione, spesso “dopata”, di “prodotti scientifici” e di “comitati di rivista e di editor” sta distruggendo la ricerca scientifica in Italia. Non è questo il modo per combattere forme sia pur possibili e presenti di parassitismo o di uso strumentale della carriera universitaria (che invece non vengono sanzionate né combattute, ma sono ampiamente rappresentate e difese, in primis – è triste dirlo – nel nostro Parlamento).
Come uscire da questa impasse? Per prima cosa non bisogna confondere la razionalizzazione della ricerca con la sua gestione aziendale post Gelmini, una gestione che genera un conflitto tra interesse e verità. Se la proprietà intellettuale ha assunto un valore di mercato e la conoscenza è un prodotto da vendere, la riforma delle università e degli enti di ricerca secondo il modello aziendale ha cambiato il carattere della ricerca, che dovrebbe invece mantenersi aperta al confronto scientifico ed alla condivisione della conoscenza, diventando così anche messaggera di pace o di comunione tra i popoli. Va dunque rivendicata la necessità di una Ricerca libera in termini assoluti.
Ma cosa significa ricerca libera? In primis, la ricerca è libera se guidata dalla curiosità, dalla passione. Essa è libera se segue le direzioni suggerite dalla curiosità personale, anche se apparentemente lontane dalle applicazioni concrete. Di fronte ad una realtà in drammatica trasformazione come il tempo che viviamo, più vasta e ricca di sorprese di quello che possiamo riuscire a percepire, è nostro dovere porci in ascolto dell’impossibile e non essere arroganti, cioè non credere di sapere a priori su cosa sia giusto interrogarsi davvero o meno.
È solo il partire dalla curiosità, con la costruzione di edifici teorici astratti e apparentemente poco concreti, che ha permesso in passato e ci potrà permettere in futuro di scoprire approcci diversi e più potenti al mondo, di tornare ai problemi originari con una maggiore ricchezza di idee e di strumenti concettuali, ed infine di affrontare con successo drammi e contraddizioni del nostro tempo.
Una ricerca, dunque, libera dall’utile dell’immediatamente fruibile.
Ciò, tuttavia, comporta anche un grado di libertà da una visione moralista del sapere, che impone nel sapere la propria visione ideologica e valoriale del mondo. Questo è solo un’altro strumento di controllo della ricerca: la ricerca di base deve aver garantita la possibilità di esplorare ogni campo del sapere perché si è mossɜ solo dalla curiosità e dalla passione .
Va inoltre ricordato che la ricerca è libera solo se collettiva: la vera libertà si ritrova nella dimensione di comunità, nel consentire appunto alle comunità scientifiche di sviluppare autonomamente valori, curiosità, passione, intraprendenza e per poter svolgere il proprio il proprio percorso. La ricerca è sforzo collettivo, è confronto con l’alternativa, quella che non avevi considerato: se manca la dimensione comunitaria nulla di altro, nuovo e importante potrà svilupparsi. Comunità significa che tutte le anime dell’accademia prendono parte alla ricerca scientifica, in un processo circolare di avanzamento: in questo la didattica riveste un ruolo cruciale, non sconnesso ma strettamente legato alla ricerca in quanto allзricercatorзè richiesta una quota di didattica. Posto che è necessario una maggiore quota decisionale rispetto a come interagiscono le due parti, slegare completamente la ricerca dalla didattica altera la circolarità dei saperi, completando il processo di aziendalizzazione iniziato dalla Gelmini. (vedi le ipotesi di divisione tra “Teaching Universities” e “Researching Universities”). l’importanza del processo collettivo, complesso e stratificato, non è riassumibile in un ciclo di valutazione burocratica e ministeriale di pochi anni, come invece ci viene tristemente confermato dal cursus honorum richiesto per poter accedere agli spazi della ricerca e dall’apparato, ormai elefantiaco, della valutazione; il pesare la ricerca sulla quantità di pubblicazioni e sul loro conteggio è una perversione, poiché non tiene neppure conto dell’ambito in cui si fa ricerca, e costringe a coltivare solo ciò che è pubblicabile in una sorta di pericolosa ripetizione dell’identico. Mentre questo modello quantitativo e algoritmico viene criticato e superato in molti altri paesi, da noi si afferma senza reale contraddittorio, generando distorsioni di sistema e azzerando lo spirito critico, soprattutto nelle nuove generazioni di ricercatorз. L’elemento di collegamento spesso trascurato, sotto questo punto di vista, è quello dell’abilitazione scientifica nazionale, la procedura di valutazione non comparativa gestita direttamente dal Ministero attraverso le Commissioni nazionali dei Settori concorsuali; questa ha avuto un impatto ancor più marcato sullзgiovani ricercatorзe dottorзdi ricerca, comportando nei fatti, sia nella attività quotidiana sia nel rapporto con la comunità accademica, un cambiamento e soprattutto un travisamento degli obiettivi naturali della ricerca. Esso ha nei fatti mutato fortemente le pubblicazioni in ambito universitario, estremizzando la logica per cui qualità della ricerca significa “ricerca pubblicabile”, costringendo, nei fatti, moltз giovani ricercatorз, che spesso non erano ancora nelle condizioni di farlo, a pubblicare dei prodotti di ricerca che per la comunità scientifica non sono di reale interesse (ed anche in grande quantità); il risultato è stato un capovolgimento pernicioso o degli obiettivi della ricerca scientifica: pubblicazioni di qualità e di interesse non per la comunità scientifica, ma per il valutatore esterno. Ciò ha cambiato totalmente lo scenario delle riviste, il modo con cui si dà peso agli articoli, alle monografie, ai paper, finendo inevitabilmente per cambiare profondamente e radicalmente le discipline stesse. La pubblicazione spasmodica di prodotti di ricerca non solo ha abbassato la qualità delle singole pubblicazioni, ma anche quella delle aree di ricerca: ne deriva che la valutazione istituzionalizzata della ricerca è diventata, duole dirlo, così condotta, un fattore di rischio per la libertà stessa di ricerca. Come si risolve tutto ciò? L’imperativo primo è una struttura di finanziamenti che permetta la normale attività di ricerca dellзsingolзricercator3. Quando si discute di finanziamento alla ricerca bisogna far attenzione a parlare in modo lato di definanziamento: ci troviamo in un momento storico in cui il decisore politico indirizza il finanziamento in misura coerente con le evoluzioni dell’economia e del mercato. I soldi ci sono, o si trovano, solo per ciò che interessa qualcuno, non per il bene comune. Nell’ultimo frangente storico, con i fondi PNRR, si è assistito a finanziamenti a cascata solo su determinate aree di interesse comunitario; ne consegue che il decisore politico a tratti non è neppure più quello nazionale ma quello europeo. Sarebbe dunque incorretto dire che la ricerca è definanziata: si finanzia sempre più se non solo la ricerca di “interesse strategico”, di stringente applicazione e uso contingente, con le conseguenze che vediamo. I finanziamenti pubblici, dunque, se vincolati, sono un rischio esattamente come quelli privati. Finanziare a pioggia determinate aree piuttosto che altre significa, progressivamente purtroppo, la morte di determinati settori scientifico disciplinari: la morte sia in senso stretto, se non parliamo di settori che interessano chi detiene i capitali e dunque ha una volontà nel vederli progredire, sia nell’indirizzo; se finanziati, i settori non di interesse (si pensi a quello umanistico, ma si pensi a tutti i saperi di base, senza i quali una società diviene cieca e impotente) vedranno la loro ricerca piegata plasticamente a branche che possono essere direttamente applicabili ed appetibili, sia che i fondi provengano dal privato, sia da grandi consorzi con partecipazione pubblica (ex. Digital Humanities).
Questo meccanismo di privatizzazione della conoscenza produce disuguaglianza sociale e contribuisce ad una distribuzione disomogenea dei redditi e dei patrimoni che sta minando le fondamenta degli stati e la convivenza sociale. Salute umana, cambiamento climatico, governo dei dati: sono queste le sfide cruciali per la prossima generazione. Non è possibile affrontarle se non smetteremo di trasformare la scienza in un bene privato e se non torneremo a investire massicciamente nei saperi di base, combattendo l’analfabetismo strumentale e ipertecnologico che è sempre più funzionale ad un sistema perverso di mercato.
Non esiste, infine, libertà della ricerca se non è libero chi fa ricerca. Garantire condizioni dignitose a chi fa ricerca è necessario a partire dalla fascia di età in cui si è più creativз, dai 20 ai 35 anni: la libertà della ricerca significa libertà dal bisogno.
Il sistema attuale, al contrario, istituzionalizza il precariato. A livello di impatto sociale, questo causa il 90% di persone che intraprendono un dottorato espulse dalla carriera accademica; la carriera accademica è ormai troppo spesso “sostenibile” solo se si hanno mezzi propri per farlo, e la categoria dell’autoselezione sfocia nel privilegio sociale. Si perpetua dunque una perversa e patetica retorica del sacrificio che maschera un asservimento ad un sistema malato. Risulta dunque urgente ripensare il sistema di finanziamento dei settori e operare subito per il riconoscimento dei diritti e della particolare condizione di apprendistato dellзdottorзdi ricerca; così come vanno superate le borse di ricerca e ogni forma spuria o atipica nella ricerca, configurando qualunque rapporto di lavoro come tale, anche quando a tempo determinato (con relativi riconoscimenti di diritti, retribuzione e previdenza).
Dopo il 2026, quando i fondi PNRR finiranno, si allargherà ancora di più la forbice tra chi riuscirà ad andare avanti e gli espulsi dal sistema, già troppe e troppi, che progressivamente cresceranno: una forbice allargata significherà, nel lungo periodo, sempre meno ricerca e questo comporterà, ovviamente, l’ulteriore indebolimento, se non la morte, dell’Università come comunità.
La contrattualizzazione dellз dottorз di ricerca è l’unica via per uscire da questo abisso. Un reale investimento per elevare le forme di pagamento in ingresso e in itinere del personale universitario italiano – che è sottopagato rispetto agli standard europei – è il vero modo per combattere, in modo non retorico o di facciata, la cosiddetta “fuga dei cervelli”.
5. Partecipazione e Decisionalità
I luoghi decisionali della vita accademica sono diventati negli ultimi decenni sempre meno spazi di confronto e di partecipazione attiva, assumendo invece troppo spesso il ruolo di ratifica di decisioni prese in contrasto alla volontà della comunità universitaria. Si pensi a livello nazionale alla tendenza di molti governi di bypassare i pareri del CUN e del CNSU. Dall’altro lato invece vediamo come prendano spazio altri tipi di organi che vivono di una serie di contraddizioni e problematicità.
La CRUI è un ente privato dei rettori di nemmeno tutte le università italiane che tuttavia ha delle prerogative che gli vengono sempre più spesso riconosciute dalla legislazione, e che gioca un peso sempre maggiore nelle scelte di governo, in quanto il suo parere è considerato e valorizzato. Il CODAU invece è l’organo dei direttori generali delle amministrazioni italiane, che si legittima nell’interlocuzione “alta” con i Ministeri di riferimento (MUR, Mef, PA), ma che è non di meno è un organo privato, che assume spesso un ruolo indebito di interpretazione di norme e indirizzi delle politiche universitarie, spesso in un’ottica aziendalistica e di massima radicalizzazione dell’autonomia. A livello di ateneo invece si nota come gli effetti dell’aziendalizzazione, a seguito della legge 240/10, abbiano portato a un progressivo svuotamento dei Senati Accademici in favore di un maggiore peso del Rettorato e del suo middle management (prorettorз, delegatз, gruppi operativi), oltre che dei CDA, aventi al loro interno soggetti privati che hanno spesso interessi “di parte” nella loro attività all’interno degli organi di Ateneo. Inoltre, il peso che viene attribuito alla direzione generale risulta ulteriore elemento di criticità dal momento che si dà in mano a profili esterni agli organi un grosso potere decisionale e discrezionale nella gestione dei bilanci.
Ci troviamo quindi di fronte a una situazione in cui la partecipazione reale alle decisioni strategiche risulta sempre più complessa; la situazione è aggravata da una gestione del PNRR sempre più verticistica e che comprime gli spazi democratici dei corpi accademici. A causa dei meccanismi di finanziamento che prevedono delle quote premiali, gli Atenei prendono le loro decisioni in virtù dei criteri che garantiranno loro l’acquisizione di quote premiali del FFO o di altri fondi governativi e non in virtù delle scelte più adeguate per i reali bisogni dell’ateneo e per i soggetti che poi vivono realmente il peso di quelle decisioni, soprattutto lз studentз.
Risulta quindi chiaro che le rappresentanze e gli organi accademici facciano fatica a essere legittimati dalla comunità universitaria. Il fatto che gli organi siano luoghi di ratifica li rende molto spesso inutili portando a una generica sfiducia nella possibilità di incidere nelle decisioni riguardanti la propria vita all’interno dell’università (non a caso con un “effetto specchio” della sfiducia nella democrazia partecipata che i populismi alimentano nel nostro sistema politico). Ne è un esempio l’affluenza alle elezioni studentesche che registra ormai percentuali irrisorie – e in alcuni casi anche una perversa gestione diretta delle segreterie politiche dei partiti – o la difficoltà nel trovare persone che vogliano dedicare tempo a una vera politica universitaria e studentesca al di fuori di interessi clientelari. Quindi, da un lato le riforme delle modalità di rappresentanza devono portare a una reale incisività che dia un ruolo propulsivo e che permetta di recuperare del potere decisionale da parte delle comunità accademiche. Dall’altro lato invece risulta necessario, soprattutto all’interno della comunità studentesca, dotarsi degli strumenti di formazione e comprensione del ruolo che la rappresentanza vive; da ultimo bisogna immaginare modalità di compensazione per coloro che decidono di dedicare parte alle attività poiché spesso trovano anche compromessa la loro attività accademica in virtù del loro impegno.
Tuttavia, per ridare decisionalità e creare partecipazione non ci si può fermare alla rappresentanza a una sua riforma: si devono trovare altre pratiche, anche di democrazia diretta, che possano introdurre elementi di novità all’interno dell’attuale modello di struttura amministrativa negli Atenei.
Pratiche alternative possono essere l’istituzione dei referendum accademici, i quali tuttavia per essere incisivi devono avere carattere vincolante, e la creazione di assemblee che permettano di partecipare anche a rappresentanti non eletti e che possano avere un ruolo all’interno dei processi decisionali dei corsi. Il modello di rappresentanza verticale può e deve essere riformato e integrato da strumenti di partecipazione e democrazia diretta, andando così a creare nuovi spazi di confronto che arricchiscano il dibattito all’interno della comunità accademica.
In questo quadro, va posto con forza, come ineludibile e centrale, il tema della riforma dello stato giuridico della docenza. Il sistema delle fasce, aggravato dalle troppe forme di precariato, ha mostrato in questi anni tutta la sua debolezza e la sua disfunzionalità. La Riforma Gelmini, che prometteva di cancellare il baronato, lo ha cristallizzato. L’Italia è l’unico paese europeo che non distingue nettamente tra ingresso nella docenza e avanzamento nella carriera di professoresse e professori. La corsa al vertice della piramide, il sistema feudale dell’ordinariato – a cui vanno tutti i ruoli di governo – è inefficace e iniquo. Il ruolo unico della docenza con valutazione periodica paritaria e permanente, unito a concorsi trasparenti per l’ingresso nella docenza, è l’unico modo serio e reale per sottrarre il sistema dei concorsi universitari alle pressioni di quei tanti baronati e dei troppi interessi distorti che affliggono l’intero comparto dell’alta formazione.
L’università, in Italia come in altri paesi, è ad un bivio. Può riprendere e sostenere la via della trasformazione democratica delle nostre società, favorire integrazione, democrazia, benessere materiale e morale diffuso. O può trasformarsi nello strumento tecnocratico del governo di interessi selettivi e feroci. Solo un nuovo patto tra generazioni e soggetti che vivono nei luoghi del sapere, della cultura e della conoscenza può invertire una rotta pericolosa e una deriva che non è segnata né ineluttabile.
Riprendiamo lo spazio del dibattito nei nostri Atenei. Agiamo,insieme,adesso.
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